Chirurgia estetica e responsabilità penale del medico
La sentenza n. 5/2003, resa dalla Corte d'Assise di Firenze in data 9/6/2003, di contenuto particolarmente complesso, tocca una tematica di scottante attualità. Le imputazioni, mosse ad un chirurgo estetico, impegnato in un intervento di lipoaspirazione sulla persona di B. L., attengono sia alla pressapochezza igienica, con la quale ne venne curata l’esecuzione (uso di ferri chirurgici, guanti e farmaci non sterili), sia al fatto di aver, poi, ritardato il ricovero della paziente che presentava i primi allarmanti sintomi di una setticemia in atto.
Ma il quadro accusatorio non si compendia in tali circostanze avendo, l’organo inquirente, contestato al medesimo sanitario l’aver fornito al personale medico, successivamente intervenuto, dati e notizie fuorvianti circa l’intervento chirurgico espletato, così determinando l’insorgenza di una grave forma di fascite necrotizzante, dalla quale erano derivati postumi invalidanti permanenti.
La dottoressa veniva giudicata, altresì per l’omicidio volontario di F. B. perché, dopo aver agito colposamente con violazione delle leges artis nell'esecuzione dell’intervento sopra indicato, senza tenere conto delle conseguenze, aveva pervicacemente adoperato le stesse modalità nel trattare un'altra paziente, pur rappresentandosi come possibile il verificarsi dell'evento-morte ed accettando, comunque, il rischio che esso si verificasse.
Lo stesso sanitario, infine, veniva incolpato del reato di lesioni personali gravi cagionate a F. P. in conseguenza di un terzo intervento di liposuzione. Anche in questo caso, a seguito di ciò, si verificava l’insorgenza di una fascite necrotizzante agli arti inferiori, con i postumi di un rilevante danno estetico e dell'indebolimento permanente della funzione tegumentaria.
Il consenso dell'avente diritto al trattamento medico-chirurgico: analisi della dottrina ed orientamenti della giurisprudenza. Prima di analizzare l'articolata motivazione attraverso la quale si è snodato il decisum dei Giudici di prime cure, sembra opportuno effettuare una breve ricognizione dell'ampio panorama dogmatico offerto dalla dottrina e dalla giurisprudenza sul tema del consenso dell'avente diritto al trattamento medico-chirurgico.
Per quanto riguarda, anzitutto, il fondamento normativo dell'attività medico-chirurgica, di per sé di regola lesiva dell'altrui integrità fisica, la dottrina prevalente collocandola nell'ambito delle cd. scriminanti tacite, ritiene che essa costituisca espressione dell'art. 51 c.p., trattandosi di attività giuridicamente autorizzata.
Peraltro, tradizionalmente, si distingue tra: a) attività terapeutica; b) attività terapeutico-sperimentale; c) attività sperimentale pura; d) attività estetica pura (o di mera vanità).
Nell'ultimo caso, la liceità del trattamento estetico può essere fondata esclusivamente sul consenso dell'avente diritto entro i limiti delineati dall'art. 5 c.c. (cfr. Mantovani PG ed. 2001; nonché Padovani III ed. 1995).
Ed infatti, l'ordinamento giuridico consente che l'individuo possa liberamente disporre del proprio corpo, a meno che gli atti di disposizione cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica ovvero siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume.
Al fine di individuare, pertanto, se il trattamento medico-chirurgico sia lecito o meno, deve farsi inevitabile riferimento al consenso, cioè alla volontà che il paziente deve esprimere in merito all'intervento, che deve essergli spiegato dal medico in modo completo, chiaro e senza possibilità di equivoci.
Tale consenso dev'essere anzitutto reale, cioè dato espressamente; libero, cioè frutto di una scelta spontanea e non di una costrizione; trattandosi, poi, di un diritto personalissimo non può che spettare al titolare, ossia all'ammalato.
A tal proposito, il nuovo Codice di Deontologia Medica, approvato nel 1998 ha espressamente disciplinato agli artt. 32 - 33 le modalità del cd. "consenso informato", che dev'essere prestato dal paziente prima dell'intervento, prevedendo dettagliatamente il tipo di informazione che il medico deve fornire e la qualità della stessa, anche relativamente alle varie alternative terapeutiche ed ai prevedibili vantaggi.
Dunque, è evidente che qualsiasi trattamento medico-chirurgico debba essere preceduto da un'ampia informazione circa la tecnica operatoria, ma soprattutto sugli eventuali rischi e complicanze cui il paziente può essere esposto.
Sulla base dell'art. 51 c.p., pertanto, è giustificato il trattamento medico-chirurgico come tale, cioè per le lesioni e le sofferenze in cui esso si concreta, semprechè l'intervento effettuato nel pieno rispetto delle leges artis abbia avuto un esito fausto.
Ne discende che, laddove tale consenso non vi sia stato perché non vi è stata una preventiva informazione o perchè questa è stata parziale, o equivoca o falsa, la lesione che l'intervento terapeutico ha inevitabilmente procurato non può ritenersi scriminata, e dunque rimane illecita.
Nella prassi si parla, poi, di consenso presunto tutte le volte in cui il titolare si trovi nell'impossibilità materiale o giuridica di poterlo effettivamente prestare, ad es. perchè minorenne o incapace, ovvero perché versa in stato di coma.
In tal caso il consenso dovrà essere manifestato dal legale rappresentante dell'ammalato.
Si discorre, altresì, di consenso presunto nei casi di urgente necessità terapeutica, allorquando l'operatore nel corso di un intervento chirurgico, preventivamente acconsentito dal paziente, rilevi una patologia completamente diversa da quella prefigurata ovvero più grave, per cui la terapia chirurgica dovrà essere necessariamente diversa, magari maggiormente lesiva e conseguentemente diverse saranno le conseguenze.
In siffatta ipotesi la giurisprudenza ritiene che l'intervento medico effettuato in stato di necessità, e finalizzato a salvare la vita del paziente, rientrando nell'ipotesi dell'art. 54 c.p., non debba essere
necessariamente subordinato ad un nuovo consenso, in quanto l'urgenza di salvare la vita altrui esime da ogni responsabilità penale.
Nell'ambito del quadro normativo sinora delineato è pervenuto, peraltro, all'attenzione della giurisprudenza il caso di un sanitario che, agendo senza lo specifico preventivo consenso del paziente ed al di fuori di qualsiasi urgenza terapeutica, aveva procurato una lesione personale da cui era derivata la morte come conseguenza non voluta della propria condotta.
La vicenda, nota come il "caso Massimo", riguardava un medico giudicato qualche anno addietro proprio dalla Corte d'Assise di Firenze con sentenza di condanna, confermata dalla Suprema Corte di Cassazione.
Nel caso di specie, l'operatore aveva praticato di sua iniziativa un intervento chirurgico diverso rispetto a quello concordato, che era meno grave e cruento, in completa assenza dello stato di necessità.
La paziente, dopo qualche tempo, era deceduta per cui il medico, ritenuto inizialmente responsabile del reato di lesioni personali, essendo intervenuta la morte quale evento ulteriore non voluto, era stato condannato per il reato di omicidio preterintenzionale.
Il percorso argomentativo seguito dalla Suprema Corte era stato quello secondo cui "soltanto il libero consenso del paziente, quale manifestazione di volontà di disporre del proprio corpo, può escludere in concreto l'antigiuridicità della lesione procurata mediante trattamento medico-chirurgico. Sussiste, pertanto, il delitto di omicidio preterintenzionale ove, in conseguenza delle lesioni personali da esso derivanti, si verifichi l'evento morte del paziente" (Cass. Pen. Sez. V, 21/4/1992, Massimo in Cass. Pen. 1993, 63).
In altri termini, secondo i giudici di legittimità, il chirurgo ebbe sotto il profilo intellettivo, la rappresentazione dell'evento-lesioni e, sotto quello volitivo, l'intenzione diretta a realizzarlo, ebbe cioè la consapevole volontà di ledere l'altrui integrità fisica senza averne diritto e senza che ve ne fosse necessità.
Per quel che concerneva il rapporto di causalità con l'evento morte, poi, la preterintenzione venne configurata come un'ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva, intendendosi il primo riferito al reato-base e la seconda all'evento non voluto. Quest'ultimo fu posto, dunque, a carico dell'agente sulla base del solo rapporto di causalità, ossia prescindendosi da ogni indagine di carattere psicologico.
Resta da analizzare il caso in cui il medico abbia procurato al paziente lesioni personali ovvero la morte per effetto della propria condotta negligente, imprudente o imperita, ovvero per violazione delle norme non scritte che regolano l'esercizio della professione sanitaria.
Si versa, in tal caso, nell'ambito della cd. colpa professionale che riguarda specificamente le attività giuridicamente autorizzate perché socialmente utili (qual è appunto l'attività medico-chirurgica), ma che tuttavia sono per loro natura intrinsecamente rischiose.
Essa presuppone, in particolare, l'inosservanza di regole di condotta impositive dell'obbligo di adottare misure cautelari, idonee a contenere i rischi entro limiti socialmente accettabili.
Rispetto alla suddetta attività non valgono gli ordinari criteri della prevedibilità ed evitabilità dell'evento, inerenti tipicamente la colpa generica, ma piuttosto la sottoposizione al rispetto di specifiche "leges artis", cioè regole non scritte dell'arte medico-chirurgica fissate dal miglior scienza ed esperienza del settore, le quali da un lato salvaguardano l'utilità sociale dell'attività consentendone l'esecuzione, ma tuttavia ne minimizzano il rischio.
L'agente, pertanto, risponderà per colpa medica solo dei danni prevedibili, ma prevenibili mediante l'osservanza scrupolosa delle leges artis.
Non sarà, invece, imputabile per i danni prevedibili, ma verificatisi nonostante la fedele osservanza di tali regole tecniche, trattandosi di rischio consentito accollatosi dall'ordinamento nel momento stesso in cui esso ha autorizzato l'attività rischiosa.
La sentenza in dettaglio. L’esposizione dei principi sopra riferiti è parsa opportuna per comprendere appieno i passaggi che hanno caratterizzato la densa motivazione della sentenza che si annota.
I Giudici della Corte d'Assise hanno riconosciuto pacificamente la responsabilità dell'imputata in ordine al reato di lesioni colpose in danno di B. L.
Infatti, dall'istruttoria dibattimentale lunga e penetrante erano emersi i chiari segni di una grave condotta negligente del chirurgo estetico sia nella fase pre-operatoria, sia nell'esecuzione dell'intervento stesso sulla paziente.
Maggiori perplessità ha destato, invece, sul piano giuridico l'imputazione di omicidio volontario, commesso con dolo eventuale, di F. B.
Sul punto, l'ipotesi accusatoria, inizialmente coltivata dall’Ufficio del P.M., alla luce delle risultanze dibattimentali, è stata abbandonata in favore del reato meno grave di cui all'art. 584 c.p.
Il rappresentante della Pubblica Accusa ha, in particolare, affermato che non poteva ritenersi sussistente il contestato reato di omicidio volontario, in quanto non poteva assumersi che l'imputata si fosse prefigurata la possibile morte di F. B. come conseguenza del suo scorretto operare.
La tesi dell'omicidio preterintenzionale è stata sposata - sia pure con sfumature diverse - anche dai difensori delle parti civili nel rassegnare le proprie conclusioni.
A tal proposito si evidenzia che, proprio alla luce dell'interpretazione comunemente accolta in giurisprudenza sul tema della configurabilità dell'omicidio preterintenzionale in seguito ad un intervento chirurgico, i patroni dell’accusa privata si sono sforzati di cogliere la mancanza del consenso - quale elemento fondante la teoria in oggetto - dai più svariati elementi.
Infatti, a parere della difesa di F. B. la distorsione del chirurgo estetico di un'esaustiva informazione circa l'entità e le possibili conseguenze dell'intervento avrebbe reso invalido il consenso prestato dalla paziente, con la conseguenza che la morte della stessa, quale evento non voluto dall'imputata ma provocato dalla sua condotta, sarebbe da ricomprendersi nella previsione dell'omicidio preterintenzionale.
La mancanza di un valido consenso, inteso come assenza di una corretta informazione, era stata sostenuta - puramente ad adiuvandum, non essendo prevista nell'ordinamento la fattispecie delle lesioni preterintenzionali - anche da B. L., argomentandosi sul punto che la stessa era convinta di essere operata in una struttura, anziché in un'altra.
La tesi dell'omicidio preterintenzionale, sotto il profilo della mancanza del consenso informato, conformemente ai principi enunciati nella citata "sentenza Massimo", pure richiamata dalla Corte d'Assise di Firenze in motivazione, non è stata tuttavia ritenuta meritevole di accoglimento.
Sul punto, è stato efficacemente sottolineato che, nel caso di specie, il chirurgo estetico non aveva eseguito interventi diversi o ulteriori rispetto a quelli consentiti ed accettati - qual era appunto l'ipotesi presa in esame dalla predetta decisione - ma piuttosto aveva praticato gli interventi concordati con la massima colpevole disinvoltura ed ignoranza dei principi basilari dell'arte medica e di ogni doverosa cautela, senza curarsi in alcun modo dell'integrità fisica e della salute dei pazienti, con ciò ritenendo sussistente una condotta integratrice di meri reati colposi.
Considerazioni conclusive. La soluzione adottata dai Giudici di I° grado appare condivisibile e conforme agli ordinari principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in materia di colpa medica.
In particolare, non sembrava accoglibile la tesi dell'omicidio preterintenzionale, incentrata sul difetto di un valido consenso prestato dalle singole pazienti, in quanto si trattava di interventi di lipoaspirazione consentiti ed anzi espressamente richiesti dalle donne che intendevano migliorare il proprio aspetto fisico, ma la cui esecuzione era avvenuta in totale dispregio delle più elementari norme cautelari e di igiene, prima ancora che in violazione dei più accorti principi della professione sanitaria.

Avv. Massimo Sartorio d'Analista


 
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